UNA SPETTATRICE PRIVILEGIATA A FANO JAZZ BY THE SEA
Il dietro le quinte di un festival internazionale di musica creativa contemporanea
Non so molto di jazz, ma credo di avere un certo istinto per la bellezza. Quello che so del jazz è grazie a un amico – che purtroppo non è più qui, un profondo appassionato di Michel Petrucciani, Oscar Peterson, John Coltrane -, e che di questo genere ne assumeva i tratti: la libertà estrema, l’improvvisazione, l’indipendenza, il cambio di direzione repentino e folgorante, la responsabilità sociale oltre che individuale, il senso profondo del collettivo, la sperimentazione, la curiosità nell’incontro con l’altro seppur distante, l’ascolto ma anche l’intransigenza del rimanere con morbida pienezza radicato sulla propria strada. In poche parole maestro nel rompere la convenzione, quella vecchia e vuota ovviamente. Questo ho capito del jazz.
L’occasione, l’idea e una mail
Ma iniziamo dal principio. Durante l’estate ho la possibilità di smaltire delle ferie ed ero certa che, stranamente, non mi sarei allontanata troppo da Fano. Volevo dare un senso a questo tempo, avevo finalmente dello spazio da riempire, ma non sapevo ancora come. Sfoglio Instagram, ed ecco il post di Fano Jazz Network che invita ad aggiungersi allo staff per collaborare attivamente alla 31° edizione di Fano Jazz By The Sea. Nove giorni intensi di musica creativa contemporanea, questa la definizione geniale della proposta artistica da parte della Direzione. Clicco, sbircio la mission, scorro le aree di competenza da scegliere e incomincio a pensare che sarebbe interessante provarsi nell’ambito della comunicazione, d’altronde male di certo non fa vedere dei professionisti all’opera e imparare qualcosa. In effetti sarà così, il mio referente è Alessandro Eusebi, CEO e founder dell’agenzia di comunicazione PolarStar, un ragazzo imponente, capelli lunghi raccolti a cipolla e grandi occhi azzurri. Mi ha dedicato molto tempo con la pazienza di chi ama quello che fa e ha piacere nel condividerlo, persino le ovvietà (beata ignoranza, la mia!). L’ho ascoltato con immenso piacere, portandomi a casa ogni scoperta.
Sta di fatto che non compilo immediatamente il form sul sito ma l’idea continua a ronzarmi in testa, tipico segnale personale che ho già scelto. Santa profilazione dell’utente web, a volte ha dei lati positivi, mi ritrovo il post suggerito ogni volta che apro un social, praticamente sempre davanti agli occhi. Mi arrendo e scrivo. Appuntamento per il 30 giugno con gli altri volontari negli uffici dell’Associazione al complesso monumentale di San Domenico, uno dei tanti gioielli che custodisce il centro storico di Fano, e sede – nell’omonima pinacoteca – della suggestiva rassegna in assolo “Exodus. Gli echi della migrazione”, tra le proposte più emozionanti dell’intero festival.
Piove a dirotto – in questa estate balorda che ci ostiniamo goffamente a chiamare anomala – e sono puntualmente in ritardo, mi sono convinta di avere congenito il quarto d’ora accademico e dunque me lo perdono, ma non so gli altri. Infatti mi telefona Marianna Zaccardi – occhi gialli e pelle bruciata, la mente e la mano invisibile che organizza e pianifica ogni minimo dettaglio -, chiedendo se mi fossi scordata dell’appuntamento, e di corsa sui sampietrini prometto di essere da lei entro cinque minuti. Salgo la scalinata di marmo che purtroppo guardo distrattamente, me la godrò al ritorno andando a sbirciare anche l’imponente corridoio adiacente e sorrido immaginando un agglomerato di monache aggirarsi all’unisono e in silenzio per l’edificio (sì, è stato nel secolo scorso anche un convento di monache Benedettine).
Prima riunione, un mare di informazioni che mi coinvolgono, mi piacciono, sento a pelle un’affinità che avevo annusato e che confermerò appieno a fine esperienza. Informazioni che non ho certamente tenuto per me, ma che sono raccontate nel primo blog post. Un approccio brillante, inclusivo, trasparente, creativo e competente quello della Direzione. Un progetto delineato e consolidato, peraltro tanta è la storia che porta sulle spalle, ma al tempo stesso sempre dinamico e in ascolto non solo del panorama musicale – per quello c’è Adriano Pedini, musicista ed ex-volontario che da anni oramai guida il Festival custodendone la memoria -; ma anche delle questioni sociali (penso al rispetto per l’ambiente nel progettare e vivere il Green Jazz Village ma anche alle rassegne Exodus, di cui ho già parlato, e Jazz&Blue una serie di conferenze sul clima e il mare in collaborazione con il dipartimento fanese di Unimar) e dei feedback del proprio pubblico (delle sue risposte positive, e sono tantissime, ma anche di quelle negative, poche ma ce ne sono). Un festival che non è autoreferenziale ma in perenne ascolto e mutamento. Davvero esemplare.
La leggerezza della gratuità
Vorrei spendere qualche riga su un tema tra i tanti centrali per Fano Jazz Network e l’ho capito solamente vivendo Fano Jazz By The Sea e le persone che lo muovono dal di dentro. Sto parlando del volontariato che, detto così, può far storcere diversi nasi. Ne avevo già fatto esperienza con l’Associazione culturale Bastione Sangallo grazie alla quale una ventina di volontari ha, per svariate stagioni estive, animato culturalmente e musicalmente il bastione sud della città. Un’esperienza certo faticosa ma divertente e importante.
Ora lungi da me dal fare un’apologia del lavoro gratuito, soprattutto in Italia dove il “non c’è budget” è espressione più inflazionata di “pizza e mandolino”, dico solo che potrebbe essere un’esperienza sorprendente prestarsi liberamente e consapevolmente in alcuni momenti, quelli in cui particolari condizioni di vita ce lo permettono magari, e mettere al servizio la propria professionalità facendone un discorso di appartenenza a una comunità a cui restituire un proprio contributo. Un sentimento che va alimentato, facendosi esempio in prima persona, poiché mantiene in salute la vita civica.
Per Fano Jazz Network il volontariato non è solamente una risorsa da cui attingere forza in un determinato momento, ma un vero e proprio capitale umano da curare e crescere. Me lo conferma uno stralcio di un’intervista di Alceste Ayroldi ad Adriano Pedini per la rivista «Jazz» che ho trovato nel suo studio. È lui stesso a dichiarare: “abbiamo uno staff composto di giovani selezionati nel corso degli anni di grande efficienza e competenza ognuno nel proprio ambito e non solo, fortemente motivati da un solido attaccamento al progetto. Alla base del criterio di selezione c’è, in primo luogo, un periodo di volontariato che ne tempra e giustifica l’appartenenza: (…) non ci sono orari o cartellini da timbrare, ma senso di responsabilità verso un comune obiettivo condiviso. Ogni anno durante il festival ci avvaliamo di molti giovani volontari e stagisti ed alcuni di loro vengono inseriti a pieno titolo nell’organizzazione”. Ritrovo in questa descrizione i giovani volontari che con me si sono occupati della comunicazione – Jack, Nina e Becky – che per nove giorni, e non sono pochi, dal concerto all’alba fino a notte fonda, si sono spesi per girare video, fare foto, costruire reels seguendo i trend del momento per documentare il Festival esattamente come avete visto sui social, tenendo il passo di un professionista come Alessandro Eusebi.
La stessa Marianna Zaccardi, la mano invisibile che tutto organizza di prima, mi raccontava che anni addietro da volontaria era una driver, andava e tornava da aeroporti italiani su un furgoncino recuperando star internazionali, leggende della musica in alcuni casi. Situazioni incredibili! Non oso immaginare quante storie ha da raccontare. Magari un giorno…
Quanto a me, arriviamo alla domanda estremamente contemporanea, per non rendere tutto troppo naïf: cosa ci ho guadagnato? Senza pensarci troppo ho la risposta: il prestarmi gratuitamente mi ha portato alla possibilità di sperimentare senza l’obbligo di risultati certificabili. È stata una bella boccata di libertà che mi ha condotto alla scrittura, pratica a cui non ero certamente avvezza ma che ho capito appartenermi. Un’altra gradevole scoperta.
Dentro a Fano Jazz By The Sea
E arriviamo al sodo, ai nove giorni di musica creativa contemporanea. Non mi lancerò in critiche musicali, non ne ho certamente la competenza, parlerò di quello che mi ha colpito da profana che ha avuto il privilegio di fermarsi e mettersi in ascolto, senza troppi preconcetti solo per il piacere di farlo. Ho letto articoli interessanti ed esaurienti sul viaggio musicale di questa trentunesima edizione e rimando con molto piacere a loro, uno per tutti il contributo di Libero Farné per All About Jazz.
Vorrei consigliare vivamente al lettore e all’ascoltatore comune di liberarsi di una certa concezione del jazz legata a un’idea classica e cristallizzata. In realtà parlare di jazz, secondo quest’ottica, mi sembra inappropriato, soprattutto per il lavoro che qualunque artista contemporaneo (dalla penna, alla musica al cinema, ne faccio un discorso trasversale così che si possa capire facilmente) fa sui generi, ovvero li attraversa li espande e li straccia facendosi beffe dei confini, facendo semplicemente ottima musica, ottima arte. Questo sicuramente porto con me delle proposte musicali del Festival che coprono una gamma ampissima e varia: il jazz di Cosmic Journey ad esempio ha incontrato ogni sera l’elettronica e il digitale (contaminazione e sperimentazione pura, penso ai Mopoke o al progetto Archivio Futuro per fare dei nomi) e sfido chi ha assistito a riconoscerne l’idea comune del genere. Il jazz non è solo una musica, è un ecosistema di valori, di sfumature e di emozioni: ci si piange con un jazz malinconico che ti arriva dentro come personalmente mi è successo con Anna Bassy e ci si può ballare come con quello di Manou Gallo, non per niente la chiamano “Afro Groove Queen”. E tutto questo è dentro lo stesso enorme contenitore. Attenzione, dunque, a non appiattirlo perché si ribellerà sorprendendovi alla prima occasione. A qualunque altra persona che si è messa in ascolto nelle giornate del Festival, molto probabilmente, è capitato lo stesso, avrà certamente capito che non esiste il noioso, esiste un suono che diventa musica che diventa emozione che si fa ecosistema. Del noioso nemmeno l’ombra, la bellezza non può esserlo.
E in effetti non c’è definizione più azzeccata di nove giorni di bellezza, dove non è stato necessario essere un’esperta di musica per trarne piacere. Mi sono persino sorpresa nello scoprirmi piacevolmente predisposta a godere di ore di musica strumentale, senza una voce che sovrastasse il suono e che lo guidasse con un senso certamente più immediato, quello delle parole.
Mi porterò ancora a lungo nella memoria una serie di carrellate, di flash, tante sono state le emozioni e le riflessioni da semplici suggestioni che magari apparentemente possono sembrare distanti. Non commenterò l’intero programma altrimenti dovrei farne un libro, ma correremo qua e là: passando dalla raffinatezza e dalla sperimentazione dei norvegesi Rymden alla bravura diligente e sofisticata della tromba e della voce di Theo Cocker. Ricordo l’uscita dal concerto di Stanley Clarke con la nitida sensazione di aver assistito a qualcosa di eccezionale e di averlo condiviso collettivamente (è questa la magia del concerto come quella della sala da cinema), ed è stato così per tutto il pubblico che si è riversato sotto il palco quasi a stringersi in segno di gratitudine. Incredibile il batterista, Jeremiah Collier, scatenato con le bacchette sui piatti, sembrava uscito da una scena del film Whiplash.
Altrettanto generosa Lackecia Benjamin, un corpo statuario, in ginocchio sul Main Stage con il suo sax alto dopo aver dato fondo al fiato in giri di suoni meravigliosi. Prima di scendere in mezzo alla platea – per salutare quelle persone con cui dice che ha appena condiviso una festa – ricorda di comprare il disco perché è il modo più diretto per sostenere il duro lavoro della band. Un bagno di realtà che rende terreno anche il mondo dello spettacolo, dell’arte e del divertimento.
Ancora mi fa male pensare al mal di testa che mi è bastato per rinunciare a uno spettacolo unico come quello offerto dal sax di Donny McCaslin in Quartetto. Il giorno seguente, tra i ragazzi dello staff al Green Jazz Village si commenta quasi all’unanimità che sia stato uno dei concerti più belli mai visti. Insomma nel podio di molti appassionati di musica e frequentatori di parterre. Non aggiungo altro. Non ci posso pensare.
Ho assistito emozionata agli applausi incessanti alla Pinacoteca San Domenico che hanno inchiodato il sublime violino di una imbarazzata e grata Virginia Sutera a continuare a suonare ben oltre il dovuto. In tutta sincerità non le hanno lasciato molta altra scelta, è stato splendido ascoltarla. Su Anna Bassy che dire, gira sul mio Spotify molto spesso.
Queste sono alcune delle sorprese che ho ricevuto per cui ringrazio chi ha reso possibile questa esperienza. E ricordo che Fano Jazz Network non è solo Fano Jazz By The Sea ma una continua proposta culturale e musicale che cambia pelle e si allunga creando un palcoscenico diffuso nei borghi della provincia con la rassegna Terre Sonore che proseguirà per tutto il mese di agosto. Altra musica, altri scenari, altre scoperte.
di Erica Bocchetti
Editor e redattrice editoriale
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Immagine di Mirko Silvestrini